A volte, avere tanti interessi significa non riuscire a scegliere facilmente la propria strada. Piano C ci racconta la storia di Naima Comotti, che ha studiato tanto, si è messa in gioco, e alla fine ha trovato il suo percorso.
Wonder Stories è lo spazio in cui vogliamo condividere storie di persone, di carriere e di lavori. Cominciamo con alcune storie che raccontano della presenza delle donne nel mondo del lavoro, e di come ogni parabola professionale possa mutare obiettivo o direzione. Siete curiosə?
In collaborazione con Piano C, che si occupa di ri-progettazione professionale ed empowerment femminile, scopriremo le storie di donne che hanno saputo prendere in mano la propria carriera e ridisegnarla a propria misura.
Molto spesso brillanti figure professionali hanno avuto un percorso non lineare, soprattutto nel mondo del lavoro odierno, in piena rivoluzione. Le porte in faccia, nella vita o nel lavoro, possono essere molte… soprattutto (aggiungiamo: purtroppo) se sei una donna.
Lo scopo di questo spazio è quello di raccontare storie che abbattono alcuni degli stereotipi più comuni per essere d’ispirazione a tuttə. Perché non è vero che avere una brillante carriera esclude la famiglia; non è vero che ci sono professioni “maschili” e “femminili”; e non è vero che si deve avere le idee chiare fin da subito sul proprio futuro.
Ricordate: non c’è una sola via, il nostro talento è multiforme, e si plasma lungo il percorso.
Buona lettura!
Quando abbiamo scelto il nome per nostra figlia, io e mio marito ci abbiamo messo un’eternità. Nove mesi meno dieci giorni, su per giù. Perché nominare è un atto creativo, fa tremare i polsi, ti avvicina a Dio. O perlomeno all’idea che ce ne siamo fatti.
Naima, che nome. Il più grande successo di John Coltrane, una composizione sinuosa e morbida dedicata alla prima moglie, Juanita Naima Grubbs. Non l’ultima, di moglie, ma la migliore, di composizione, a detta dello stesso Coltrane.
Dare a tua figlia il nome di un brano, di questo brano, è augurarle grandi cose. E Naima, curiosa, aperta, profonda, è la classica studentessa a cui viene detto che può fare tutto quello che vuole. Quando esce dal liceo classico col massimo dei voti, Naima è davvero pronta a fare tutto. Solo che tutto non si può fare.
Bisogna scegliere, e lei non sa cosa scegliere. Non ha una grande passione, solo tanti, tanti interessi. Riflette, riflette, e infine seleziona tre opzioni: chimica al Politecnico di Milano, cinema al DAMS di Bologna, scienze dell’investigazione a L’Aquila. Naima è confusa.
Sceglie infine il DAMS, che unisce la sua voglia di andare via da Milano con l’interesse per il cinema. Eppure, giunta al secondo anno, sente tornare la confusione. Le sembra tutto molto teorico, autoreferenziale, manca qualcosa. È durante un corso di antropologia culturale che capisce cosa: quel mondo che voleva tanto scoprire, per due anni lo ha solo spiato dall’obiettivo di una telecamera.
Naima si ferma, lascia il DAMS e cambia direzione: laurea triennale in scienze antropologiche, che conclude brillantemente. Che fare dopo?
Si mette di nuovo alla prova; a Parigi trova una specialistica in Antropologia dell’arte, un buon modo per fare convivere l’esperienza del DAMS con la laurea appena conseguita. Non sa il francese, ma parte.
Finisce anche la specialistica, con qualche difficoltà in più, e si ritrova davanti allo sbocco naturale di chi studia antropologia: la ricerca. Non fa per lei, non si sente adatta, ancora una volta le sembra di guardare il mondo dal buco di una serratura.
Da un anno frequenta a distanza un ragazzo italiano, e così fanno un patto; lei tornerà in Italia e si fermerà nella prima città in cui troverà lavoro. Naima manda curriculum, non risponde nessuno. Fa qualche piccola esperienza deludente nel mondo del cinema a Parigi e Roma, niente di più. Non capisce: ha fatto tutto come le hanno sempre detto di fare, ha studiato, ottenuto risultati eccellenti, costruito una cultura solida, vissuto esperienze all’estero, sviluppato la capacità di parlare più lingue.
Eppure non funziona. Nessuno la cerca, nessuno le dà lavoro.
Torna a Milano, la sua città, e la città dove abita il suo ragazzo. Il patto è cambiato perché lei il lavoro non lo trova.
Una sua amica però le consiglia un corso di europrogettazione finanziato con fondi europei: 5 mesi, 5 ore al giorno. Naima si fida e si iscrive, in fondo studiare non è mai stato un problema.
Il corso le piace, ne sente il potenziale: progettare degli effetti, far capitare cose nel mondo, ecco quello che vuole fare. Finito il corso, inizia subito a proporsi come consulente. Trova associazioni, piccole realtà, con le quali è subito molto trasparente: ha scarsa esperienza, ma formazione sufficiente per poterle accompagnare nel reperimento fondi, e quindi nel rafforzamento organizzativo e nel miglioramento dei loro progetti.
Da consulente lavora nell’ambito della cultura e dell’innovazione sociale, e proprio all’interno di una di queste collaborazioni incontra una persona che diventerà poi socia e collega, Teresa De Martin. Naima e Teresa hanno una comunanza di visione, e di valori: vogliono aprire la cultura a una partecipazione più ampia, fare in modo che le associazioni conoscano meglio il pubblico a cui si rivolgono e capiscano come coinvolgerlo e ampliare la propria offerta. Così Naima e Teresa aprono, insieme a una terza collega, la loro associazione: fondano Meraki – desideri culturali, una realtà che a Milano si occupa di promozione della partecipazione.
L’associazione ha sede a Dergano, un quartiere periferico molto vivo e vissuto dai suoi abitanti, lo stesso in cui si trova Rob de Matt. Anche Rob de Matt ha una storia tutta sua: letteralmente “roba da matti”, è un bistrot ristorante ma anche un progetto di inclusione sociale e lavorativa rivolto a persone con storie di marginalità e svantaggio (persone con disagio psichico, rifugiati politici, migranti in difficoltà, ex carcerati, NEET).
Per due anni Meraki e Rob de Matt progettano e realizzano insieme iniziative di animazione territoriale, formando un gruppo interassociativo di persone che, semplicemente, si ritrovano in modo diverso attorno a una medesima concezione dello stare insieme.
Poi arriva il lockdown, e i ristoranti chiudono. Diverse realtà nella ristorazione iniziano a servirsi di delivery per consegnare cibo a domicilio, per restare in piedi, e per continuare a fornire un servizio in un momento di grande preoccupazione e isolamento.
Anche Meraki e Rob de Matt desiderano esserci, esserci per il quartiere, è quello che insieme fanno da oltre due anni; però l’idea di rivolgersi ai delivery service delle grandi piattaforme non è il loro modo, non credono che sia l’idea di lavoro, e di servizio, su cui stanno lavorando.
Nasce così So.De, il Social Delivery: un delivery etico, sociale, sostenibile, che garantisce un lavoro sicuro ed equo ai suoi lavoratori e alle lavoratrici. Un delivery attento all’ambiente, sia perché tutte le consegne avvengono in bicicletta, sia perché si vuole promuovere una transizione ecologica in chi decide di aderire al servizio e valorizzare i prodotti di botteghe di quartiere, librerie indipendenti, ristoranti, piccoli artigiani che non riescono ad avere accesso alle grandi piattaforme di delivery per via dell’elevato costo del servizio.
Con So.De puoi ordinare a domicilio una cena, un prodotto locale, ma anche un libro o una pianta. È un progetto sociale, solidale e sostenibile.
Per finanziare l’idea Naima, Teresa, Francesco, Lucia, Silvia ed Elia partecipano al bando del crowdfunding civico del Comune di Milano, che vincono e che funziona così: se riesci a raccogliere con una campagna di crowdfunding il 40% del budget stimato, dimostrando quindi un interesse collettivo a sostegno della tua idea, il Comune eroga il restante 60%. La campagna di crowdfunding raccoglie oltre 28.000 Euro, 3.000 Euro in più di quanto richiesto, e ottiene dunque altri 37.500 Euro dal Comune di Milano.
Ora So.De è in piena fase di start-up; dopo aver trovato i primi partner tecnici, è tempo di rendere tutto fattibile e reale. Con So.De non si vuole sostituire i grandi delivery, ma offrire un’alternativa, mostrare che un altro modo non solo è possibile, ma è utile, e bello.
A Naima chiedo a fine intervista il significato del suo nome; ho letto che si traduce in “colei che vive una vita dolce”, cerco conferma. A lei risulta, a seconda dell’accento, che il vero significato sia “dono di Dio”, o in alternativa “colei che dorme”. Mi fa ridere, e mi rassicura; alla fine un nome è più di tutto quello che ci metti dentro.